Coi capelli al vento

Le ragazze mostrano con orgoglio, per strada e sui social media, i propri capelli al vento. Non ci sarebbe niente di strano, se queste giovani donne non fossero iraniane. Per loro questo semplice gesto è una sfida allo hijab islamico obbligatorio e al regime. Una presa di posizione per cui si rischia l’arresto, la tortura, la vita. Una provocazione potente, che parla a noi donne libere di mostrare ogni giorno i nostri capelli al vento e di accedere, nonostante questo, all’istruzione, al lavoro, alle cure mediche. Una tappa forse obbligata attraverso cui raggiungere il rispetto dei diritti civili. In Iran e nel mondo.

Dalla locandina di Be My Voice, documentario della regista iraniana naturalizzata svedese Nahid Persson, che racconta la storia di Masih Alinejad

Donna, vita, libertà

Zhen, Zhiad, Azadi” ovvero “donna, vita, libertà” è lo slogan che accompagna la rivolta, una vera e propria rivoluzione, forse la più profonda nella Repubblica islamica dell’Iran dall’anno della sua nascita nel 1979. Tutto ha inizio il 16 settembre 2022 con la morte della 22enne Mahsa (Zhina) Amini a seguito delle percosse subite per non aver indossato correttamente il velo islamico. C’erano state altre proteste prima di questo fatto, ma tutte puntualmente represse. Questa volta invece il coraggio delle donne sembra essere contagioso e sempre più persone, giovani in primis, si stanno unendo alla protesta. Tagliandosi i capelli in pubblico in segno di lutto, bruciando gli hijab nelle strade, postando nei social. In 7 mesi sono state quasi 600 le vittime della repressione, oltre 19.000 gli arresti.

Tra divieti e obblighi, la tradizione del velo è intrinseca nei popoli di origine islamica. Nello stesso Iran, che nel 1982 ha reintrodotto l’obbligo di velare il capo sia alle donne residenti sia alle turiste, intorno agli anni 30 il velo veniva tolto con la forza per omologare il paese all’ideale occidentale.

Senza velo non c’è istruzione

Il velo è il simbolo, attraverso cui donne e giovani si battono per ottenere il rispetto dei diritti civili, una battaglia per l’Iran e per il mondo intero. Ed è il pretesto che il regime utilizza per tenere il controllo del Paese. Pattugliamenti della polizia, controlli con telecamere pubbliche, avvertimenti tramite sms alle donne, si accompagnano a misure ancora più drastiche, come la chiusura di attività commerciali che non rispettano l’obbligo del velo, il divieto di istruzione nelle scuole alle ragazze che non lo indossano, l’impossibilità di accedere alle cure mediche.

Nelle scuole e nei licei si sta diffondendo la pratica delle intossicazioni col gas, che ricorda gli episodi accaduti in Afghanistan tra il 2010 e il 2015. Non ci sono conferme sull’origine degli attacchi, ma intanto centinaia di ragazze finiscono in ospedale con sintomi gravi alle vie respiratorie e intere classi femminili vengono chiuse. A tutto questo si aggiungono le condanne a morte nei confronti delle minoranze etniche. Tra gennaio e febbraio 2023 sono state 94 le esecuzioni, spesso accompagnate da denunce di violenza e torture.

Liu Bolin, “Freedom in 2023”. La foto finale della performance artistica di Liu Bolin per l’Iran a Milano, alla Galleria Gaburro – Courtesy Galleria Gaburro, Verona-Milano 

Un fiore al posto del velo

Le attiviste iraniane che si battono in prima linea per i diritti umani sono tantissime, impegnate in fronti diversi. Ci sono artiste, giornaliste e scrittrici, come Azedeh Moaveni, firma del Time, la blogger Golnaz EsfandiariMahsa Alimardani ricercatrice dell’Oxford Internet Institute.

Pegah Moshir Pour, intervistata su Il Sole 24ore da Nicoletta Labarile, spiega: “Le donne in Iran sono altamente qualificate e specializzate: il 97% è alfabetizzato, di queste il 66% sono laureate e il 70% in materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Il 70% della popolazione iraniana è sotto i trent’anni e rivendica con forza il diritto di vivere come gli altri ragazzi e ragazze del mondo: avere la libertà di poter festeggiare un compleanno, viaggiare con chi si ama, passeggiare mano nella mano senza paura di essere fermati e identificati. Fino ad arrivare alla possibilità di entrare nel mondo della politica e del lavoro, per avere quella giustizia economica che un Paese deve garantire”.

Su Avvenire in un articolo di Giuseppe Matarazzo, Nasibe Shamsaei, architetto, ingegnere, designer e pittrice iraniana, spiega: “Quattro anni fa sono stata condannata a 12 anni di reclusione in Iran per aver protestato contro lo hijab e le leggi reazionarie nella Repubblica islamica. Ero una nota alpinista e scalatrice, non mi sono tirata indietro. Sono una delle promotrici del movimento “White Wednesdays”, i mercoledì bianchi, in cui si incoraggiano le donne a rimuovere il velo o a indossarne uno bianco in segno di protesta. Forse mi conoscete perché mi sono tagliata i capelli davanti all’ambasciata iraniana a Istanbul per unirmi alla gente del mio paese nella protesta contro l’omicidio di Mahsa Amini. Sì, mi sono tagliata i capelli per la rabbia contro il governo oppressivo”. E proprio questa immagine di Nasibe, con i volti di 11 attiviste, è protagonista del progetto artistico del fotografo Liu Bolin che si batte per i diritti umani.

E poi c’è Alinejad Masih uno dei volti simbolo, giornalista e attivista con il fiore tra i capelli al posto del velo, scelta dal Time tra le 12 donne dell’anno per “l’impatto significativo sulle loro comunità”. Esiliata dall’Iran dal 2009, vive con il marito e il figlio negli Usa in un rifugio segreto dell’Fbi. In un’intervista al Time, Masih Alinejad ha ricordato che non abbraccia e non vede la madre da 13 anni: “Ho dimenticato il suo volto“, ha detto, ma “l’Iran è dentro di me. Sono lì ogni singolo giorno attraverso i miei social media”.

Opera di Shamsia Hassani, www.shamsiahassani.net

Non solo Iran

Un coraggio contagioso, dicevamo. E infatti la protesta delle donne iraniane è arrivata fino al vicino Afghanistan dove altre donne manifestano contro il regime oppressivo dei Talebani. La situazione qui non è meno tragica: lo hijab è semplicemente sostituito dal burka.

Le donne afghane non possono scoprire il proprio viso, fare semplici attività come sport all’aria aperta, acquistare una Sim per cellulare o lavorare per le organizzazioni non governative. Le ragazzine possono frequentare la scuola fino ai 12 anni, è infatti vietato l’accesso all’istruzione secondaria e all’università, sia a studentesse che a insegnanti. Fatta eccezione per alcune università miste che hanno riaperto, ma con una serie di restrizioni per le ragazze. Oltre all’obbligo del burka, non possono avere rapporti con compagni e docenti di sesso maschile, non possono parlare davanti alla classe o partecipare alle conferenze. Le donne non possono avere una patente di guida e per questo sono obbligate a farsi accompagnare sempre da un uomo.

Anche in questo paese però le donne lottano per cambiare le cose. Come Shamsia Hassani, la prima street artist donna dell’Afghanistan che con le sue opere d’arte impresse nei muri di Kabul racconta tutta l’angoscia delle giovani afghane e allo stesso tempo la voglia di non arrendersi.

 

A cura di Elena Cogo